dal 21/3/2015 al 9/5/2015
Into the Interior. I lavori di Zdjelar creano uno spazio che colloca lo spettatore dentro l’interazione tra la manifestazione storica del potere e il residuo contemporaneo che preserva questa eredita’.
SpazioA gallery ha il piacere di presentare sabato 21 marzo, 2015, alle ore 18, Into the Interior, seconda mostra personale dell’artista Serba Katarina Zdjelar nello spazio di Via Amati 13, Pistoia.
I passages e gli intérieurs, i padiglioni da esposizione e i panorami sono residui di un mondo di sogno. L’utilizzazione di elementi onirici al risveglio è il caso esemplare del pensiero dialettico. Perciò il pensiero dialettico è l’organo del risveglio storico. Ogni epoca, non solo sogna la successiva, ma, sognando, urge il risveglio. (Walter Benjamin)
Into the Interior presenta una costellazione di lavori nuovi e recenti di Katarina Zdjelar. Stimolando un dialogo artistico tra materiale archivistico e museologico e i resti dei media popolari e promozionali del primo Novecento, i lavori di Zdjelar creano uno spazio che colloca lo spettatore dentro l’interazione tra la manifestazione storica del potere e il residuo contemporaneo che preserva questa eredità.
La mostra ruota attorno al Royal Museum of Central Africa (RMCA) del Belgio, un tempo residenza di Re Leopoldo II. Durante il 2013, Zdjelar ha visitato regolarmente ed esplorato i meandri della struttura, forse l’ultimo museo esplicitamente coloniale del mondo, che ha chiuso per restauro nel dicembre del 2013, come a determinare una frattura nel tempo e nella narrazione che precede l’indipendenza del Congo. Zdjelar registra alcuni degli ultimi momenti prima che la narrazione storico-culturale ormai fossilizzata del museo volga al termine, contrassegnando la fine di un’epoca e rivelando il tentativo del museo di sintonizzarsi con le esigenze generazionali del presente.
Attraverso l’obiettivo della telecamera di Zdjelar, in Into The Interior (Last day of the permanent exhibition), 2014, contempliamo le tracce di un’epoca lontana nelle forme dei trofei animali conservati. Mentre un addetto del museo toglie mucchietti di stoffa dall’interno della logora testa di un leopardo fissata in un’eterna espressione di aggressività fittizia, allo spettatore viene ricordato che la decomposizione di queste pelli animali incarnano un’ideologia in decadenza. Il video a due canali unisce filmati e dialogo relativi ai trofei, mescolati a riprese del deterioramento dell’edificio stesso, insieme alla graduale ricognizione di un paesaggio dipinto del Congo, i cui colori sono stati ridotti dal tempo a una gamma smorta, inerte e lontana dall’originale, un po’ come la carne degli animali. Il lavoro rappresenta dunque una meditazione sulla storia fossilizzata del museo e la conclusione delle narrazioni culturali che contiene. Usando la tecnica cinematografica di porre a confronto lo sguardo del cacciatore con quello del pittore, il magazzino nel seminterrato con lo spazio espositivo, la fusione di un animale con il paesaggio dipinto produce un interstizio inquietante e stratificato che è tanto ammuffito e datato quanto perenne. In questa terra di mezzo, lo sfondo non può essere isolato dalle dinamiche del primo piano.
La caccia e la pittura rappresentavano un modo maschile di passare il tempo nella colonia; erano attività tipiche delle classi superiori, che credevano così di immergersi nelle foreste vergini, nelle terre, nei contorni, in pratica nell’interno profondo del continente africano. Questi passatempi degli uomini bianchi occidentali si traducevano in un accumulo di trofei che entra in risonanza con la sovrapproduzione e l’eccesso della nostra epoca. Lo status dei trofei all’interno della collezione, non essendo né scientifico né culturale, è ambiguo, irrisolto. I trofei vengono tirati fuori solo per essere di nuovo impacchettati e riposti in magazzino. Il loro deterioramento corrisponde alle forzature ideologiche di un certo periodo e segna il passare del tempo.
Un’eco di tutto ciò si trova nella serie di stampe Tervuren Dioramas, che presenta diorami di diversi animali associati all’Africa – un leone, rinoceronti, leopardi e scimmie – esposti al RMCA. Questi diorami mostrano gli animali svuotati in posa come se fossero ancora vivi, gli arti manipolati con una certa malagrazia dai tassidermisti che hanno costretto le bestie ad assumere in eterno un atteggiamento di attacco o paura, o una posizione innaturale – un leone troppo vicino alla sua preda, o una collettività familiare esibita da animali che non possiedono un simile paradigma sociologico. Con i loro sfondi dipinti e gli alberi presi dal villaggio belga di Duisberg invece che dal Congo, i diorami hanno un aspetto artificioso e amatoriale – la fantasia colonialista del paesaggio africano costruito con risorse e capacità europee, che mette in scena animali inseguiti e uccisi per gli scopi dell’esposizione. Il medium della fotografia rafforza la sensazione di congelamento nel tempo.
In the wildness with Carl Hagenbeck 1930/1915 introduce un’ulteriore prospettiva – in questo caso attraverso la narrazione e la materialità delle figurine collezionabili di produzione industriale, pubblicate nei Paesi Bassi dalla Royal Dutch Soap Factory, Duif (oggi conosciuta in tutto il mondo come Dove), in collaborazione con la Universum Film Aktiengesellschaft nel 1930. In Germania le figurine venivano inserite come articoli promozionali nelle scatole di sigarette e nelle confezioni di cioccolata. Sembra appropriato che prodotti di questo genere – sapone, tabacco e cioccolata, che all’epoca erano sinonimi di lusso e cultura raffinata, ma altrettanto dipendenti dall’importazione coloniale – siano serviti da veicolo per diffondere le avventure di Carl Hagenbeck nelle colonie. Il nome di Hagenbeck evoca ricordi di zoologia, perché aveva creato il modello rivoluzionario dello zoo moderno, in cui gli animali sono esposti dentro a recinti senza sbarre. Gli interessi di Hagenbeck, però, non si limitavano agli animali – anche gli esseri umani per lui erano un oggetto di grande fascino; oltre alla fauna, venivano messi in mostra gli indigeni delle colonie.
Le immaginette prodotte da Hagenbeck insieme alla società cinematografica tedesca e alla fabbrica del sapone olandese promuovono il sogno coloniale. Le narrazioni si svolgono con la suspense e la tensione di un film d’azione ben fatto, ma se si studia il testo più da vicino è evidente che si ripetono sempre le stesse dinamiche.
Grazie alle teche di vetro – una specie di vetrina poco ortodossa – dove sia il fronte sia il retro delle tavole sono visibili simultaneamente, lo spettatore è in grado di osservare una narrazione doppia, quella dell’immagine e quella del testo. Le immagini isolano le fasi successive della rappresentazione degli animali, la lotta per sfuggire alla morte o alla cattura in una serie di fermo-immagini, quasi un preludio alle carcasse esposte al RMCA. Il tema del riflesso acquista un significato più ampio perché in effetti lo spettatore non vede l’immagine reale ma solo un suo riflesso – un meccanismo che pone in risalto la natura assai dubbia del rapporto della narrazione (sia visiva che scritta) con la realtà storica. L’estetica delle immagini è caratterizzata dalla loro somiglianza a fotogrammi cinematografici. Ci sono indizi che questo particolare immaginario provenga da quello che è stato il primo film tedesco in bicromia; sembra così che la storia del cinema e la sua sperimentazione e sviluppo tecnologici siano strettamente legati e dipendenti dalla storia e dalla museologia coloniale.
Nel video In the wildness with Carl Hagenbeck, Zdjelar restituisce i fotogrammi al loro formato originale: l’immagine in movimento. Nel susseguirsi delle immagini, vediamo svolgersi una sequenza di eventi. I paralleli tra il registro visivo che serve a descrivere animali e nativi africani diventano sempre più evidenti, e un’immagine dopo l’altra tornano i ricordi degli animali chimicamente trattati del RMCA disposti in pose aggressive.
L’artista ringrazia il Mondriaan Fund, la Biennale di Marrakesh 2014, SpazioA, Helke Smet, Alain Servais, Marten Patricia, Wim Wendelen, Couttenier Maarten, Patricia van Schuylenbergh, Jelle Bouwhis, Alenka Gregoric, Blanca de la Torre, Zoran Eric, Katrin Mundt, Friedrich von Bose, Hannah Dawn Henderson, Philip Ewe, Sol Archer, Maziar Afrassiabi, Niru Afrassiabi Zdjelar, Mirjana Zdjelar per il loro sostegno e per aver reso possibile questo lavoro.
Katarina Zdjelar (nata nel 1979, Belgrade, Yugoslavia) ha conseguito il MFA al Piet Zwart Institute, Rotterdam 2004-2006. Tra le mostre personali recenti segnaliamo: Towards a further word, Kunstverein Bielefeld, Bielefeld, D (2014); Of More Than One Voice, Museum Of Contemporary Art ARTIUM, Vitoria-Gasteiz, ES (2013); Stepping In-Out, Center for Contemprary Art Celje SLO (2011); Parapoetics, TENT, Centrum Beeldende Kunst, Rotterdam NL (2009); But if you take my voice what will be let to me, Padiglione Serbo 53° Bienniale di Venezia, IT (2009). Le ultime mostre colletive a cui ha preso parte sono M/other Tongue, a cura di Sabel Gavaldon Tenderpixel, London, UK (2014); New Beginnings, a cura di Sandra Demetrescu e Misela Blanusa, MNAC, Bucharest, RO (2014); Father Can’t you see I am burning, De Appel Contemporary Art Centre, Amsterdam, NL (2014); Where are we now?, 5th Marrakech Biennale, a cura di Hicham Khalidi, Marrakech MA (2014); DLA WAS/FOR YOU,Muzeum Sztuki, Lodz PL (2012); Acts of Voicing, Württembergischer Kunstverein Stuttgart, D; Rearview Mirror, The Power Plant Contemporary Art Gallery Toronto, CAN; (2011); Art Sheffield, Life-A User’s Manual, Sheffield, UK (2010); Morality. Act II: From Love to Legal, Witte de With Centre for Contemporary Art, RotterdaM, NL (2009). L’artista vive e lavora a Rotterdam.
Inaugurazione sabato 21 marzo, 2015, alle ore 18
Spazio A
via Amati, 13
Pistoia
http://www.spazioa.it/
Orari: mar-sab 11-14 e 15-19
ingresso libero