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di Maria Luisa Runti
L’ultimo capolavoro di Verdi ha debuttato ieri sera con un’accoglienza un po’ freddina da parte del pubblico, non numerosissimo in sala, sebbene mancasse dalle scene della Fondazione lirica triestina dal 2004. Falstaff, commedia lirica, come la definì lo stesso Verdi, ha una vitalità artistica, uno spirito aperto alla modernità ed un’energia creativa sorprendenti che il raffinato libretto di Arrigo Boito, (tratto da “Le allegre comari di Windsor” di Shakespeare e da alcuni passi ricavati da “Enrico IV”, il dramma storico in cui per la prima volta era apparve la figura di Sir John Falstaff) ha sottolineato con la parola. La prima ebbe luogo a Milano, nell’ambito della stagione di Carnevale e Quaresima del Teatro alla Scala, il 9 febbraio 1893, con la direzione di Edoardo Mascheroni e fu uno straordinario successo con la presenza dell’Autore, di Pietro Mascagni, Giacomo Puccini, Giuseppe Giacosa, Giosuè Carducci e Letizia Bonaparte.
La lettura che ne ha dato José Miguel Perez-Sierra, alla guida dell’orchestra del Teatro Verdi non ha reso al massimo la meravigliosa alchimia tra suono e parola strenuamente voluta da Verdi e Boito. Sono mancati il ritmo interno della partitura verdiana ed il peso che si sarebbe dovuto dare ad ogni singola parola. Interessanti alcuni passi, come l’attacco d’inizio e la fuga finale ma è mancato un equilibrio armonico fra voci orchestrali e canto. Una direzione che non ha destato l’entusiasmo che ci si auspicava, pressoché priva di fantasia e tocco personale, improntata, a tratti, allo spessore sonoro ma avara di colori e di virtuosismo sinfonico degno di nota (come avrebbe potuto essere l’introduzione al terzo atto). Un’ impostazione un po’ “opaca” che probabilmente ha condizionato anche gli interpreti che, spesso, non sono riusciti a rendere appieno nè le molteplici e complesse sfaccettature dei personaggi nè ad esaltare la parola cantata. Alberto Mastromarino ha delineato il suo Falstaff con eleganza, timbro sempre gradevole ed emissione morbida e colorita difettando un po’ nel volume. Domenico Balzani è stato un convincente Ford coniugando al timbro coloristico ed espressivo della sua calda voce una apprezzabile verve comica. Enea Scala ha tratteggiato Fenton con piglio brillante ma non sempre la sua vocalità è riuscita ad esprimere al meglio il personaggio. Eva Mei, nel ruolo di Alice, ha spaziato fra recitativi e gorgheggi solo a volte resi con coloritura armonica. Buona la caratterizzazione di Antonella Colaianni, una spiritosa ed intrigante Mrs. Meg Page, dotata di gradevole agilità vocale, buona pure la Nannetta di Mina Yamazaki, soprattutto nell’aria della Regina delle Fate. Decisamente mediocre la Mrs. Quickly di Giovanna Lanza. Completano la Compagnia di canto Cristiano Olivieri nel ruolo del Dr. Cajus, Luciano Leoni in quello di Pistola e Gianluca Sorrentino in quello di Bardolfo. Il coro, diretto da Paolo Vero, non ha dimostrato la consueta brillantezza timbrica. Prettamente di maniera scene costumi. Nicola Rubertelli non è riuscito a creare, nelle scenografie, magiche suggestioni, soprattutto nella scena finale della foresta, con la quercia di Herne, dove i teli bianchi del fondale nulla avevano a che vedere con il resto dell’ambientazione, peraltro appesantita da una sorta di soppalco in legno che rendeva meno agevole il movimento a cantanti e coro. Zaira de Vincentiis, per i costumi, ha spaziato fra stili e cromie disarmonici fra loro con mano pesante, creando un mixage del tutto fuori luogo (alcuni mantelli con cappuccio, nel finale, evocavano reminiscenze dei frati nel film “Il nome della rosa”… ) e privando di poesia alcuni delicati, lirici momenti.
Il libretto di sala dedica ben quattro pagine alle note di regia di Mariano Bauduin, in realtà sorta di elzeviri pseudo dotti sulla genesi di Falstaff, non tralasciando di ricordare Shakespeare (giustamente) e Re Artù. Una regia orrenda che ha totalmente stravolto la bellezza dell’opera e l’incalzare dei diversi momenti narrativi, all’insegna della confusione stilistica ed interpretativa, della mancanza di poesia e humor, della volgarità gratuita ed inutile. Vedasi la scena in cui i poveri seguaci di Falstaff, Bardolfo e Pistola, vengono fatti muovere a guisa di cani tirati al guinzaglio (meglio cappio da impiccato…) e, prima di uscire dalla quinta, l’ultimo dei due alza la “zampa” per orinarvi sopra (metamorfosi Kafkiana?). Né si capisce per quale motivo il coro debba spupazzare neonati, assiepato per terra o perché, in una delle scene iniziali, un mimo debba camminare con le mani mentre un altro lo sostiene per i piedi a guisa di carriola, con un bacile o pentola appoggiato nel mezzo della schiena. Ed inoltre perché il povero Falsfaff, nella scena finale debba essere disteso su di un tavolo illuminato di bianco che fa pensare ad una camera autoptica. E di altre “chicche”… ve ne sarebbero ancora ma preferisco concludere con le parole dello stesso Bauduin a chiosa delle sue note: “…tutti gabbati”. Gli spettatori.

Repliche sino al 5 luglio.

MARIA LUISA RUNTI
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