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Profonde grande energia, quando si racconta, Maria Grazia Plos. Donna umanissima, Attrice  sensibile ed intelligente, mi fa notare con orgoglio di essere Buddista e di appartenere alla Scuola della “Soka Gakkai”. Una profonda saggezza orientale permea le sue parole, il suo essere persona vera. Attenta da sempre ai problemi sociali vede nel teatro un importante veicolo per affrontarli ed approfondirli, per comunicare e condividere storie che testimoniano i disagi e la sofferenza in cui ci dibattiamo. Cinema e televisione non hanno intaccato la sua semplicità, sposa qualsiasi veicolo possa essere utile a trasmettere un messaggio costruttivo. Sorridendo divertita, mi racconta di aver recitato pure in Friulano! Colta, preparata, mai sazia di approfondire, si dedica anche alla riduzione di testi teatrali. Ultima fatica (in collaborazione con Maurizio Zacchigna che ne ha curato la regia):  “L’onda dell’incrociatore”, dal romanzo di Pierantonio Quarantotti Gambini, in scena in questi giorni, e  fino al 2 agosto p.v., sulla terrazza della Società Triestina della Vela, Pontile Istria. 
Il suo “sesto senso” le permette di muoversi agilmente fra ruoli drammatici e comici con una verve appassionata a cui  soltanto la sua straordinaria sensibilità riesce a  dar voce. Battagliera e grintosa, non arretra davanti alle gravi difficoltà in cui, soprattutto oggi, si trovano la cultura ed il teatro in Italia, convinta che il suo messaggio possa ancora e di più essere, per la gente, pane per l’anima.

Possiamo dire che sei un personaggio poliedrico, non solo attrice di teatro ma anche di cinema e tv, nonchè riduttrice di testi…

Sì, ma il cinema, come la televisione, richiede dei tempi lunghissimi di stand by e non sempre per chi fa teatro è possibile farlo, si dovrebbe essere disoccupati!

A meno che non vi sia un ruolo eclatante…

Beh, non è ancora arrivato! Il cinema mi affascina, è stupendo, Mi piacerebbe averne uno importante! I ruoli minori, pur se divertenti, non sono gratificanti. Ci si ritrova senza grande sostegno da parte degli altri partner, a volte non conoscendo tutto il contesto della trama. I primi ruoli invece si provano anche per un mese, come in teatro, ed è un privilegio che quelli minori non hanno.

Se potessi scegliere, con quali registi ti piacerebbe lavorare?

Ci sono moltissimi registi italiani, giovani, che mi affascinano, trovo sia importante la loro capacità di raccontare le storie, una prerogativa richiesta anche dal teatro. Certamente con Salvatores, con Tornatore, con Sean Penn! Mi piacerebbe un progetto che racconti le persone di oggi. Mi interessa usare il mio mestiere per mettere sotto ad una lente di ingrandimento quella che è la società odierna, con tutti i suoi problemi e contraddizioni.

Quindi cinema e teatro che abbiano valenza sociale?

Certo, è una valenza che essi dovrebbero riprendersi. Ho letto di recente un articolo su di una madre che aveva denunciato il figlio dopo aver trovato della droga in casa. Io ho fatto uno spettacolo di Pino Roveredo, portato in tournee per tre anni, “Cara creatura”, dove c’era proprio una storia del genere. Vi sono molte madri coraggio che decidono di fare un gesto estremo pur di salvare i propri figli.

E’ importante mettere in scena un qualcosa che riguardi il nostro quotidiano, senza veli?

Sì, parlare di noi, vederci, condividere quei drammi e quei dolori che di norma teniamo nascosti perché, a volte, quasi ci vergogniamo. L’apparenza finta non paga e non aiuta. Le persone hanno bisogno di parlare, di ritrovarsi; il vedere raccontata in teatro una propria storia permette di sentirsi capiti, di essere parte di una comunità. Essere compresi e non giudicati.

Fare teatro o cinema oggi, lo vedi più come una condivisione sociale del malessere che stiamo vivendo piuttosto che non un raccontare una storia fantastica, o di fantasia o di riproporre i grandi pilastri che, comunque, possono essere rivisitati?

Mi piace molto la drammaturgia contemporanea ma i vecchi, grandi pilastri sono comunque modernissimi. Pensa a Shakespeare, alla contemporaneità con cui affronta il potere che continua a sfruttare le persone che lavorano, oggi come 400 anni fa, senza che abbiano, in realtà, di che poi vivere.

Diciamo che si vive in una schiavitù legalizzata…

Sono temi di cui parlare, c’è chi si vergogna a farlo, chi si vergogna di non avere soldi. Certo non io, piuttosto mi adiro perché so che c’è qualcuno che sta guadagnando su di me! Trovo sia importante condividere questi concetti, avere il coraggio di esporli per non sentirsi da soli. Troppa gente è morta per questo.

Di recente, diversi imprenditori si sono ammazzati per vergogna…

La vergogna è data dal fatto che in certe situazioni uno si sente “unico”, invece il malessere va condiviso. C’è un pensiero buddista che afferma proprio quanto sarebbe bello condividere con gli altri esseri umani le gioie ed i dolori. Non siamo più capaci di farlo… Le gioie, perché siamo invidiosi; i dolori, perché ci vergogniamo.

Non si tratta solo di condividere ma anche di essere ascoltati, l’egoismo imperante isola le persone che temono di essere giudicate…

Ed è per questo che la gente non ha voglia di raccontarsi! Se, ad esempio, alla fine di una narrazione che parla della perdita del proprio lavoro, uno si sente dire: “che sfigato”… è chiaro che non si aprirà più, fingerà che le cose vadano bene senza risolvere il problema.

Possiamo dire che in questo momento della tua carriera convogli le energie per trasmettere il messaggio teatrale in modo che esso diventi quanto mai un messaggio sociale…

Assolutamente sì, questo è il mio obiettivo, spero di riuscire a farcela! Ciò, comunque, non significa fare soltanto lo spettacolo “impegnato”. Lo scorso anno, ad esempio, con la produzione della Contrada, abbiamo messo in scena “Il metodo”, di Jordi Galceran. Uno spettacolo leggero, assolutamente godibile, che è piaciuto moltissimo al pubblico e che riprenderemo quest’ inverno sia nelle piazze dell’ERT che a Bologna, al teatro Duse. Godibile pur toccando un argomento pesante: questa nostra società violenta dove le persone vengono sezionate ed analizzate nel minimo dettaglio, anche nella vita privata, per riuscire a trovare la persona giusta da mettere al posto giusto. E’ importante, per noi, avere il coraggio di mostrare anche gli aspetti peggiori della realtà.

Come vedi la pesante severità con cui vengono selezionate le persone per ottenere un lavoro e l’attuale stato dell’arte del mondo operativo in cui si trovano?

Mi sembra un controsenso.
Un controsenso enorme. Una selezione così attenta dovrebbe produrre delle eccellenze. Ma non si tratta dell’eccellenza come la pensiamo noi, con i suoi valori di umanità, bensì di quella spietata, che valorizza la capacità di essere disumani e di considerare solo il profitto.

Portando questo discorso al teatro…

Vale anche per il teatro. Con carenza di risorse contributive si devono diminuire i giorni di prova, di norma un mese, poichè ci sono dei tempi da rispettare: quello di studio, di memorizzazione e di prova scenica. Sono poche le produzioni che riescono a sostenerlo. Meno giorni di prova riducono i costi ed aumentano i profitti che servono a mantenere la produzione ma, nel contempo, ciò va a scapito della qualità dello spettacolo.

Tu fai parte della Casa del Lavoratore Teatrale. Che cosa si propone questo nuova Associazione? Come coniugate il problema della qualità a quello economico?

Facendo i salti mortali! Il progetto “L’onda dell’incrociatore”, in scena fino al 2 agosto al Pontile Istria della Società Triestina della Vela, ha visto l’inizio delle prove ai primi di giugno.

Siete dunque dei conigli bianchi…

Sì! Dobbiamo coniugare le esigenze dello spettacolo a quelle della sopravvivenza quotidiana perciò, pur continuando a provare, abbiamo ottemperato a qualche altro piccolo impegno. Per la qualità di un progetto in cui si crede vale la pena fare dei sacrifici.

Com’è il vostro rapporto con i giovanissimi del gruppo?

Non ci sono più giovanissimi… quasi tutti hanno 30 anni! E’ un rapporto bellissimo, i più sono stati allievi dell’Accademia Teatrale città di Trieste, li ricordo ancora da ragazzini! Ora sono colleghi. Molto creativi e bravi.

“L’onda dell’incrociatore”: ne hai curato la riduzione assieme a Maurizio Zacchigna. Come ti sei trovata in questo ruolo, secondo me molto difficile; come l’hai affrontato?

Partiamo dal fatto che conosco molto bene il testo e lo amo profondamente. L’ho avuto nel cuore dalla prima lettura, desiderando di portarlo in scena. Il percorso che avrei voluto seguire mi è stato chiaro dall’inizio: trovare il personaggio protagonista che raccontasse la sua vicenda come fosse già vissuta.

Ci sono delle regole che si devono adottare per ridurre un testo onde renderlo agile teatralmente?

Per me è importante il capire che cosa voglio raccontare e cercare, nell’ambito del racconto, il mio filo rosso che mi permette di farlo. Questo testo ha delle bellissime parti di dialogo, costruite molto bene, che ho mantenuto tali e quali.

La prima versione era meramente letteraria…

Certo! Poi, assieme a Maurizio, che già aveva una chiara, forte e precisa chiave di regia, abbiamo cominciato a lavorare sulla drammaturgia.

Qual è questa chiave?

Umanamente cruda, a volte disarmante, con degli spazi onirici.

Che tipo di messaggio vi proponete di dare al pubblico in un momento come quello attuale?

Per prima cosa di rendere la memoria che merita a Quarantotti Gambini, eppoi parlare di una Trieste e di un mondo che in qualche modo ha portato noi ad essere ciò che siamo ma che ora non esiste più. Raccontare ciò che furono la Sacchetta e le Canottiere nel ’35, una periferia assolutamente distante dal tessuto cittadino. Un mondo legato al tempo ed alla natura.

Offrirete allo spettatore la possibilità di godere di un testo interessantissimo e, nel contempo, di un panorama mozzafiato…

…che è proprio quello che ha visto lo svolgersi della vicenda narrata nel romanzo!

Nei tuoi programmi futuri, da affiancare a quelli della Casa del Lavoratore Teatrale, quali anteprime?

Un progetto molto divertente, con RAI 3 regionale, che ho già fatto alcuni anni fa e che mi vede recitare in friulano! Poi la ripresa, con la Contrada, de “Le calze di seta di Vienna” e de “Il Metodo”. Il prossimo anno ci saranno delle cose molto belle ma… ne parleremo un’altra volta!

MARIA LUISA RUNTI
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